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Giuliana Cuneaz

Scarica il C.S. e l'intervista all'artista: 

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Giuliana Cunéaz Cercatrice di Luce

 

il documentario realizzato dalla regista e attrice Paola Corti

 

Giuliana Cunéaz Cercatrice di Luce è il documentario di 50 minuti dedicato all’artista dalla Rai Valle d’Aosta.

L’opera, realizzata con grande sensibilità dalla regista e attrice Paola Corti, consente di ripercorrere una ricerca di oltre trent’anni scoprendo alcuni aspetti inediti della sua indagine espressiva.

E’un viaggio che parte da Il Silenzio delle Fate, evocativa installazione con 24 elementi realizzata nel 1990, per giungere a I Cercatori di Luce, la videoinstallazione su tre schermi recentemente esposta al PalaCinema di Locarno e al Meet Digital Culture Center di Milano. Non mancano nemmeno i riferimenti al lavoro plastico Lo Spirito della Rosa entrato a far parte in permanenza della collezione del Quirinale. Un percorso di grande coerenza che l’ha vista protagonista di un’indagine dove le tecnologie e le nanotecnologie (i suoi primi lavori in 3D risalgono al 2003) sono state occasione per esplorare l’invisibile in un dialogo che sfiora i confini dell’immaginario, come avviene con la scultura in legno Les Manteillons du Mont Blanc composta da circa tremila pezzi che si aggregano come molecole preservando la forma variegata del Monte Bianco. Attraverso piccoli forellini poi è possibile intrufolarsi nella montagna osservando i “Manteillons”, gli spiriti o i folletti che secondo la leggenda sono imprigionati tra i crepacci.

L’opera immersiva di Giuliana Cunéaz non prevede confini in una continua relazione tra materiali apparentemente distanti tra loro quali la terracotta e il 3D, la pittura e le immagini in movimento sullo schermo (screen painting): “Abbattere i dogmi è una delle caratteristiche della mia indagine che cerca di cogliere lo spirito del tempo, uscendo da confini troppo ristretti”, afferma Giuliana Cunéaz in grado di dare vita a un’arte segreta con le radici nella scienza e nel continuo inseguirsi delle forme. E non a caso nel 2013 ha realizzato Matter waves unseen, una wunderkammer dove le meraviglie s’inseguono coinvolgendo le microsculture nascoste nei cassetti con straordinarie immagini digitali che danzano sullo schermo: “Giuliana ha la capacità di far convivere dimensioni differenti all’interno di un medesimo contesto. La tecnologia non va intesa come superamento o come tentativo di raggiungere novità effimere, ma come un allargamento delle prospettive e definirla artista della new media art appare certamente riduttivo”, spiega la storica della videoarte Sandra Lischi (è lei ad aver dedicato una specifica scheda sull’artista nell’enciclopedia Treccani), una delle tante testimonianze del mondo dell’arte e della cultura che compaiono nel documentario girato negli spazi del Meet e nell’atelier dell’artista dove, insieme a Sandra Lischi, si possono ascoltare gli interventi di Aida Accolla, Marco Bazzini, Lorenzo Bruni, Paolo Campione, Chiara Canali, Valentino Catricalà, Alberto Fiz, Mara Folini, Maria Grazia Mattei.

“Giuliana ha saputo creare veri e propri alfabeti dando vita a forme nuove prima inesistenti”, spiega Paolo Campione, direttore del Museo delle Culture di Lugano. E a confermarlo è la presidente del Meet, Maria Grazia Mattei che sottolinea come l’indagine dell’artista sia determinata da un desiderio di totalità ben riconoscibile ne I Cercatori di Luce dove “pittura, scultura, immagini tridimensionali, danza e performance si fondono tra loro”.

Sono poi in molti a sottolineare l’aspetto spesso pionieristico della sua ricerca solitaria nata come sfida alla conoscenza che l’ha condotta a realizzare lavori corali con ambientazioni complesse: “Mi sento una creatrice di mondi”, sottolinea l’artista che nel documentario, ricco di materiali d’archivio, analizza la genesi de I Cercatori di Luce, un lavoro che si basa su tre concetti fondamentali: la sostenibilità, le differenze con l’annullamento della dimensione spazio-temporale e l’attenzione verso il lavoro inteso come desiderio di migliorare la dimensione individuale e collettiva: “I Cercatori di Luce è un’opera filmica con un forte messaggio sociale che si sviluppa intorno all’idea di rigenerazione”, afferma Mara Folini, direttore del Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona e Valentino Catricalà curatore della Soda Gallery di Manchester ribadisce come Giuliana Cunéaz utilizzi “la tecnologia in modo etico con l’obiettivo di aprire nuovi orizzonti”.

Ma dal documentario emerge con chiarezza la peculiarità di un’artista che esplora il nuovo mantenendo un’anima antica dov’è possibile rintracciare una dimensione arcaica e ritualistica. Lo dimostra la lunga indagine realizzata intorno agli anni Duemila sul mondo degli sciamani, così come nel 2021 la creazione di Amabie, una sirena ricoperta di squame dai lunghissimi capelli e il volto simile ad un uccello che emerge dal mare con un oggetto luminoso in mano. Ad interpretarla è stata Paola Corti. Insomma, c’è tanto spazio laggiù in fondo in base al titolo della mostra proposta al Meet.

 

Il percorso di Giuliana Cunéaz tra arte e scienza
 

 

Un mondo profondo, misterioso, potente e traboccante di visioni:

un Universo immaginario e inconscio attorno all’invisibile.

 

Intervista all’Artista

 

Come ti sei avvicinata all’arte?

 

La mia passione per l’arte si è sviluppata intorno ai dodici anni mentre attraversavo uno dei momenti più difficili della mia vita. Soffrivo di crisi di panico in seguito a due forti traumi vissuti per la morte di due miei compagni di scuola, che sono mancati a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro in seguito a incidenti.  Mi era sempre piaciuto disegnare ma a quell’età ho sentito una spinta misteriosa che mi conduceva più lontano rispetto al semplice piacere del disegno. I primi lavori diciamo “artistici” li ho realizzati con matite e inchiostri, sempre in bianco e nero, quasi in uno stato di trance. Dopo aver terminato il primo disegno, mi ricordo che rimasi stupita del risultato e del fatto che l’avessi potuto realizzare io. A rivederli oggi ci sono una serie di  riferimenti “inconsci” alla metafisica (De Chirico è stato una mia grande passione) e al cubismo.

 

Mi racconti gli anni della tua formazione?

 

Ho frequentato l’Istituto d’Arte ad Aosta e poi l’Accademia Albertina a Torino. Quelli vissuti a Torino sono stati per me anni molto importanti . Preparai la tesi sull’Arte Povera e in quell’occasione conobbi, per un’intervista, Giuseppe Penone che era uno dei miei artisti di riferimento. A Torino c’era un fermento davvero interessante ed ero sempre più convinta che quello dell’arte sarebbe stato il mio mondo.

 

Quali sono stati gli elementi d’ispirazione? Prima di arrivare al 3D tu hai avuto un lungo percorso che ha attraversato esperienze diverse. Me lo descrivi in sintesi?

 

Durante tutta l’Accademia ho fatto svariate sperimentazione cercando di capire quali linguaggi e quali strumenti privilegiare in base alle mie attitudini e al mio modo di sentire. Capii subito che non volevo rimanere intrappolata dalla tela ma il mio desiderio era quello di lavorare anche sullo spazio e sull’installazione. Mi sono, quindi, dedicata subito a lavori piuttosto concettuali. La prima grande installazione ambientale dal titolo Archéopteryx l’ho realizzata ad Aosta nel Teatro Romano  a metà anni ottanta. Il lavoro, che nasceva dalla volontà di catturare una porzione di cielo e fissarne l’impronta, era formato da tre coni “abitabili” specchianti con al vertice un foro stenopeico. Questi elementi funzionavano come veri e propri apparecchi fotografici. Di notte, appoggiando sulla base interna della carta fotosensibile, avevo modo di registrare il movimento delle stelle in rapporto al movimento terrestre. Ecco che diventava chiara la necessità di lavorare su un altro elemento oltre allo spazio, ovvero il tempo. Il lavoro venne poi distrutto e nel 1990 Videoformes mi permise di realizzare nuovamente i tre coni con materiali decisamente più consoni.

Ho iniziato così a lavorare sull’ambiente e ho realizzato Il Silenzio delle Fate, una grande opera installativa composta da 24 leggii collocati in diverse località della Valle d’Aosta che avevano in comune l’apparizione leggendaria di una Fata. E’ stata una svolta importante: ero attratta dal mondo misterioso dell’immaginario e dalla sua relazione con la natura.

Successivamente, mi sono avvicinata all’idea del corpo immaginato con lavori come In Corporea Mente dove si crea un’intima relazione tra forme umane e vegetali, tra radici e arterie, tra petali e carne, o Corpus in Fabula , una grande bambola con parti organiche pulsanti tra le pieghe del candido abito in perspex o ancora Biancaneve, un giaciglio di fiori in plexiglass opalino nel quale spiccava un cuore vivo ripreso durante un intervento chirurgico. Nel 1998 ho iniziato ad interessarmi al tema della complessità con L’offrande du Coeur e in seguito ho realizzato un importante ciclo dal titolo Il cervello nella vasca, un lavoro che aveva lo scopo di mettere in discussione lo sviluppo unitario dell’opera d’arte e si interrogava sui processi creativi e formativi della stessa. Alla fine degli anni novanta mi sono interessata alle trance e ho realizzato video e fotografie che ritraevano persone in particolari stati di coscienza, cercando così d’indagare la natura misteriosa e metamorfica della coscienza. Questa ricerca mi ha condotta a frequentare sciamani, medium, ipnotisti, psichiatri ed è stato davvero molto interessante. Successivamente, ho iniziato a lavorare sulle dinamiche di gruppo e con Officine Pastello ho indagato le palestre dell’affettività,  così come i gruppi dei rave party ed ho realizzato anche un video sui Punkabbestia, fenomeno di emarginazione urbana ancora poco studiato. Con Terrains Vagues, poi, una videoinstallazione del 2003 dedicata alla città di Berlino, ho affrontato il tema dello spaesamento e della memoria chiamando alcuni cittadini berlinesi a rastrellare la terra di un ideale spazio naturale e incolto situato nel centro della città.

Ho, poi, lavorato al progetto di Zona Franca nel 2003 invitando le persone a salire sui tetti e a realizzare lì un proprio sogno o desiderio di carattere irrazionale ed emotivo. Si sono materializzati personaggi incredibili e questa installazione ha rappresentato una svolta verso l’animazione 3D che poi ha accompagnato tutti i miei lavori successivi.

 

Quando e come ti sei avvicinata alle animazioni video in 3D?

 

Come ti stavo dicendo è proprio attraverso il lavoro Zona Franca che ho scoperto questa tecnica che considero straordinaria. L’installazione consisteva in una serie di pannelli appesi e inclinati che simulavano i tetti di una città invisibile. Su questi erano proiettati i personaggi che si alternavano migrando da uno schermo all’altro e creando un universo dinamico. A quel punto volevo poter realizzare una mutazione dei tetti, volevo che i coppi rossi si trasformassero in campi quantici e avevo identificato immagini in nanoscala viste al microscopio elettronico di filamenti di DNA che mi sembravano perfette in quanto potevano essere scambiate per superfici di lana o dune del deserto. L’idea, dunque, che i personaggi venissero inglobati e dissolti dal respiro della materia mi affascinava e l’unico modo per realizzare questo progetto è stato rivolgere lo sguardo oltre al video e affidarmi alle molteplici potenzialità dell’animazione 3D.

Da quel momento ho realizzato “Quantum Vacuum” una sorta di danza sacra tra un personaggio e il campo quantico che lo circonda. L’attore è una figura reale ripreso con la telecamera, mentre il paesaggio virtuale è realizzato in animazione.

“I Mangiatori di Patate” del 2005 è stato realizzato conciliando l’uso della telecamera con l’animazione; il titolo evoca il celebre dipinto di Vincent van Gogh e la mia opera celebra il rito primario del mangiare intorno ad una tavola virtuale in costante mutazione.

I lavori successivi sono stati realizzati interamente con l’animazione 3D come l’intero ciclo di The Growing Garden realizzato con la tecnica dello screen painting e ispirato al nanomondo. O la videoinstallazione Matter Waves con onde di terra che, nel loro flusso, portano alla luce elementi vari per poi riappropriarsene nuovamente. Gli oggetti sembrano essere veri reperti o frammenti archeologici, ma in realtà sono nanostrutture provenienti da elementi molecolari o polimeri. Un altro lavoro significativo è Neither Snow nor Meteor Showers che, come suggerisce il titolo, non descrive né un paesaggio né un fenomeno atmosferico, ma è anch’esso ispirato ad immagini viste al microscopio elettronico e evoca un luogo germinale, primario, che esalta gli  aspetti enigmatici e ambigui delle  forme dove nulla di ciò che si vede è ciò che sembra.

In questo ambito di ricerca rientra anche il ciclo di animazioni stereoscopiche 3D Zone Fuori Controllo di cui fanno parte Waterproof, Crystal Growth, Rompere le acque e Fire Flows. Il lavoro è dedicato a problematiche particolarmente attuali quali le catastrofi naturali e i disordini ecologici. Sono ipotesi di paesaggio che consentono un viaggio simulato e imprevedibile tra le onde di una tempesta, gli spazi misteriosi di una grotta, le colate laviche di un vulcano e la collisione di mastodontici iceberg. 

 

Che cosa ti affascina del 3D?

 

Le potenzialità del 3D sono infinite. Per quanto mi riguarda è stata una scoperta che ha mi ha permesso dal 2003 di dare una svolta al mio lavoro. La tecnica di animazione 3D contiene in sé tutte le principali discipline del mondo dell’arte: la modellazione, la pittura, l’animazione, la fotografia, l’architettura, il sonoro, il video... E’ un universo straordinario dov’è possibile sintetizzare ogni forma di linguaggio artistico senza procedere a scissioni artificiali. L’animazione 3D rappresenta per me un potenziale mezzo di sintesi delle arti.

 

Hai parlato di screen painting. Ci puoi spiegare cosa sono? Come nasce questa tua personalissima tecnica?

 

Lo screen painting coniuga la pittura su schermo TV alle immagini  digitali in 3D con un effetto di immediato impatto visivo. Le due cose sono sin dall’inizio progettate per convivere in perfetta simbiosi. Creare il primo screen painting è stato come abbattere un tabù. Intervenire con un pennello intinto nel colore direttamente sulla pelle dello schermo in modo da far dialogare l’immagine virtuale con quella pittorica, è stata una bella emozione. In un tempo in cui l’arte digitale e l’arte tradizionale non sembravano guardarsi di buon occhio la mia ha voluto essere una sfida. Lo screen painting, poi, si caratterizza per il fatto che anche quando il monitor è spento, rimane un oggetto dipinto, quindi, sempre godibile alla vista e perde le sue proprietà seriali per diventare un oggetto unico. I miei linguaggi dialogano senza mai elidersi.

 

Appare molto evidente anche il tuo interesse per la scienza…

 

Ho sempre subito il fascino della scienza, (l'astronomia, la biologia, l'antropologia, la chimica, la fisica), sono materie che spesso sono presenti nel mio lavoro, ma per citare Bachelard “Un poeta vede sempre la stessa cosa, sia che guardi al microscopio sia che guardi al telescopio”. Ecco il mio è sempre stato un approccio artistico, una semplice sovrapposizione di interessi. In fondo, credo che lo scienziato, il filosofo, il poeta o l'artista si interroghino sulle stesse questioni. Sia l’artista sia lo scienziato, quando guardano un polimero al microscopio elettronico o una volta stellata al telescopio, ricercano il piacere della scoperta. Ognuno dei due poi la traduce con i mezzi che gli sono propri. 

Ho anche da sempre il grande desiderio di rendere visibile ciò che non lo è, almeno ad occhio nudo.

Io vorrei vedere tutto, traboccare di visioni! Mi interessa l'universo immaginario che si crea intorno all'invisibile. Sono fondamentalmente un'esploratrice e lavoro sulla materia come un archeologo nel sottosuolo. E' come avvicinarsi al cuore più segreto della vita e constatare le qualità e i limiti della nostra potenzialità percettiva e creativa.

Nel nanomondo si possono osservare forme straordinarie e imprevedibili come simmetrie cristalline, delicati orditi, strutture geometriche o immagini naturalistiche. Sono state per me lo spunto per creare i mondi nei quali immergermi totalmente e consentire allo spettatore di fare altrettanto. Come scriveva il grande fisico americano Richard Feynman «C’è l'impeto delle onde/ montagne di molecole/ ognuna stupidamente immersa/ negli affari suoi/ lontane milioni di miliardi/ ma spumeggiano all'unisono./ Ère dopo ère/ prima che occhi potessero vedere/ anno dopo anno/ colpendo con violenza la riva/ come adesso». Il senso è chiarissimo: nel nanomondo – come d’altronde nell’universo – c’è spazio per tutto. Anche per l’arte e la poesia.

 

Qual è la relazione tra arte, scienza e tecnologie?

 

Attraverso la scienza e grazie alla tecnologia posso accedere a conoscenze e a visioni finora impensabili. Inoltre, grazie alla tecnologia e all’arte, posso essere non solo uno spettatore ma un interprete partecipe e questo mi consente di creare mondi che hanno radici nel mondo reale, poiché le forme che vengono modellate e animate in 3D si ispirano a quelle esistenti in nanoscala, ma sono protese verso una dimensione anche psichica e questo mi permette utilizzarle in modo plastico e immaginifico. In ogni microgrammo di materia sia contenuta tutta la complessità dell’universo e immedesimarmi nell’improbabile sogno di un atomo.

Sono interessata, poi, alla genesi delle forme e ai processi di trasformazione in quanto percorso attraverso cui la vita si modifica determinando identità in continua mutazione. Credo che oggi ci siano straordinarie potenzialità che la tecnologia ci mette a disposizione. Perché l’arte non ne dovrebbe approfittare andando alla ricerca di nuove strade?

 

Cosa rappresenta nell'evoluzione della tua indagine espressiva I Cercatori di Luce, un film a cui hai dedicato quasi due anni di lavoro?

 

E’ una tappa per me fondamentale. Scherzando lo chiamo “la mia Cappella Sistina.” Riassume tutti i miei interessi nel tempo, è un po' la summa dei miei precedenti lavori.

La realizzazione è stata molto complessa ma anche molto interessante, e ha visto in campo collaborazione di più arti (danza, teatro, cinema, musica, moda). Il lavoro coprodotto con CISA (Conservatorio Internazionale Scienze Audiovisive Locarno)vede coinvolti attori di fama internazionale (una fra tutti, Angela Molina), stilisti (docenti e studenti dell’Accademia NABA), grandi stelle della danza (Aida Accolla, ex prima ballerina della Scala) danzatori provenienti dall'Accademia Kataklò diretta da Giulia Staccioli, la top model Aurora Talarico, la più giovane modella di Valentino, critici d'arte prestati al cinema (Bruno Corà) e del musicista e compositore Paolo Tofani che ha fatto parte degli Area, tra i più sperimentali gruppi degli anni settanta. I Cercatori di Luce è una videoinstallazione su tre schermi e il paesaggio nanomolecolare, di sofisticata bellezza, diventa lo scenario nell’ambito del quale attori, ballerini e performer compiono azioni tese a modificare il contesto. Rappresenta lo strumento per interrogarsi sul nostro stare al mondo di fronte ad un sistema dove la sostenibilità ambientale è stata messa in grave pericolo. Si crea un grande affresco sul potere rigenerativo della natura attraverso il lento percorso che conduce dalle tenebre alla luce. I Cercatori di Luce, portatore di un messaggio di carattere sociale ed ecologico, rappresenta una ricerca all’avanguardia nella sperimentazione tecnica dove tutte le energie sono concentrate sulla ricerca della luce, intesa come materia connaturata alla terra feconda e “mente del mondo”. L’opera ha lo scopo evidenziare l’unione primigenia tra l’io e la natura: la luce si espande e diventa luogo di condivisione e di conoscenza: “Solo la luce che uno accende a sé stesso, risplende in seguito anche per gli altri”, ha affermato Arthur Schopenhauer. 

 A quali nuovi progetti stai lavorando?

 Sto lavorando ad un altro progetto molto ambizioso dal titolo Terrae Incognitae un’installazione interattiva. L'installazione prende in esame nove luoghi presenti su antiche mappe ma che risultano oggi inesistenti o, forse, chissà, esistiti un tempo e poi scomparsi. Sono isole o terre leggendarie che hanno spinto grandi viaggiatori dell’antichità ad imbarcarsi in avventurose imprese e, al contempo, hanno ispirato storici, poeti e letterati ad intraprendere viaggi fantastici per dar corpo a quei luoghi illusori e incantevoli.

Il mio progetto ha esattamente questo scopo, cioè permettere a tutti di visitare le terre incognite compiendo un viaggio altrimenti impossibile. Lo spettatore, insomma, attraverso l’uso delle nanotecnologie e delle animazioni 3D, vive la presenza di quei luoghi misteriosi dai paesaggi sorprendenti e immaginifici.

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by Stefania Bertelli

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